Nel presente, ognuno è vero, per 15 minuti.


Ieri sera ho fatto un’eccezione e ho guardato la trasmissione di Santoro.
Saranno stati 3 anni che non lo guardavo. Né lui né altri talkshow.

Ieri sera, come molti altri milioni di italiani, ero nell’umore giusto per guardarla. Ci ho messo un po’ a sintonizzare il canale perchè il telecomando aveva le batterie scariche. Ma ogni tanto va fatto. Anche per rendersi conto che effettivamente faccio bene a fare altro. Ma anche per capire come funzionano gli altri. Ché io non sono mai stato molto bravo a capire cos’è che ha successo, quello che piace alla gente, e perchè.

Si in teoria lo so. La fenomenologia di mike bongiorno mi è chiara. Ma mi è così estranea che ne guardo la manifestazione così come assisterei al processo riproduttivo delle meduse. Pura curiosità, zero empatia. E così, in fondo, ne resto estraneo. E non so mai come e perché le meduse si riproducono.

Silvio Berlusconi è un nano della politica ma un gigante della comunicazione e da Santoro lo ha dimostrato in maniera strepitosa.
Una trasmissione secondo me impostata malissimo, con una prima partemolto lenta, e che il conduttore ha dovuto riprendere in pugno per evitare che si inabissasse. Silvio intanto furoreggiava, prendeva a pallate tutti, capace perfino di dire cose sensate e di dare lezioni di economia internazionale ….

da http://vitobiolchini.wordpress.com/

Riporto quanto sopra perché mi risparmia di dovermi impegnare a scrivere le stesse cose, visto che le condivido e posso passare oltre.

Silvio Berlusconi è un gigante della comunicazione, ma… gli altri, quanto appaiono nani!

L’odio è un sentimento antipolare all’amore. Al punto che a volte si confondono. Si ritrovano.
L’odio di quella sinistra per Berlusconi è così polarizzato da non essere dissimile dalla pervasività dell’amore.
E ieri sembrava che di fronte finalmente all’oggetto del proprio oscuro desiderio l’amante-odiante restasse lì in muta adorazione, fiacco, incapace di distaccarsi dal reticolo ipnotico del grande comunicatore.

E così, giornaliste e giornalisti, tutto l’impianto della trasmissione, specchiava la pochezza di questi berlusconi-addicted, olgettine dell’informazione, che sono vissuti per ventanni grazie a lui. Indirettamente stipendiati.

Eppure. C’è chi oggi è deluso e chi è contento. Del risultato, dico.
Ma che senso ha? Si sono visti un sacco di temi sfiorati appena. Sono state raccontate cose e dati dei numeri non verificabili al momento. Quello che resta è una sensazione.
La sensazione che hai ricevuto su chi abbia “vinto” e chi abbia “perso”. La banale semplificazione. La più banale fra tutte quelle possibili.

Ma a questo serve e conduce la televisione.

E la società italiana è strutturata su questo meccanismo, ormai.

Nel senso che se anche un consistente numero di persone non ne condivide i riti, è comunque questa, la macchina del consenso chiamata dell’informazione, a rappresentare la realtà della società italiana fotografata nei risultati elettorali.

Viviamo in un mondo in cui pochi, molto pochi, possono avere le capacità intellettuali, nonché il tempo necessario, per capire come funziona. E nessuno è in grado di descriverlo in modo semplice.

Ogni semplificazione della realtà, d”altro canto, non è la realtà.
E quindi, una semplificazione della realtà e una pura mistificazione della realtà sono, nel breve periodo, indistinguibili.

E i tempi televisivi sono brevi. Brevissimi.

La maggior parte della gente è stata addestrata a considerare la televisione come informazione.
Ma in realtà quello a cui assistiamo non è informazione, se non in senso lato, ma rappresentazione. Simbolismo.

Andy Warhol è divenuto celebre anche per quella sua frase: “Nel futuro ognuno sarà famoso per 15 minuti”.
Io direi: nel presente ognuno è vero, in quei 15 minuti.

Il tema centrale della crisi economica, la questione euro e sovranità monetaria, è stato appena sfiorato dall’intervento, quasi casuale, dell’imprenditrice veneta. Ma ha dato modo a Berlusconi di fare il politico: ovvero di lasciarsi davanti ampi margini operativi: “o la Bce diventa proprio una banca oppure italia grecia spagna saranno costrette ad uscire dall’euro, ma non è quello che vogliamo…” ovvero un colpo al cerchio e uno alla botte.

Solo questo, è un tema su cui fior di economisti di fama mondiale, alcuni premi nobel, hanno scritto molto, anche a livello divulgativo. Ma non essendo un argomento che fa audience, non viene portato in tv. Oltre tutto è anche un argomento che non consente agli showman dei talkshow di far contenti i loro padrini politici, tutti schierati per ignoranza o convenienza sul fronte opposto.

E così il vero problema della crisi e delle possibili politiche economiche per uscirne fuori si risolve con uno scambio di frasi che suonano oscure per chiunque non sia andato ad informarsi per suo proprio conto.

Questo ovviamente vale anche per tutto il resto: processi, scelte politiche, numeri.

Può essere vero tutto e il contrario di tutto, in quei 15 minuti.
La televisione non ha il compito di accertare la verità. Ma di presentare delle molteplici verità. O falsità. Ma è lo stesso.
Non sono distinguibili se non vai a monte o a valle a fare un lavoro enorme di vera informazione.

L’informazione devi costruirtela, se la vuoi.

Ma la gente, la maggior parte della gente, non lo fa. Prende quella rappresentazione per realtà..
Prende alcune semplificazioni per verità. Si accontenta di buttarsele addosso, da una parte all’altra. Come in una sassaiola, in cui pietre, palle di ferro, di legno, di plastica, sono indistinguibili, partono, salgono, scendono, atterrano nel campo avverso.

Ma è quella “maggior parte della gente” che fa numero e nella democrazia è il numero quello che conta.
Il voto di un informato vale quanto quello di un disinformato. Quello di un consapevole quanto quello di un mesmerizzato dai fluidi magnetici che scaturiscono dagli schermi, catodici, a cristalli liquidi o al plasma…

Solo che chi non ha tempo, voglia, capacità, strumenti, per informarsi sono molti di più. E quindi sono loro, che decidono. In ultima analisi.

E sono loro che i politici devono raggiungere, senza scendere in piazza, senza sporcarsi le mani.

Poi ce ne possiamo anche stare dall’altra parte del terminale, nelle nostre più o meno accoglienti casette, a incazzarci e sfanculare, tanto loro mica ci vedono o ci sentono.

Ma questo è il meccanismo. Le cose funzionano così, non si può starne fuori.

Il M5S, Grillo, fa bene a negare la propria partecipazione al teatrino. E’ un ottimo modo per ribadire la propria estraneità, la propria diversità. Oltre tutto, negarsi significa dare maggior valore alla presenza, quando sarà.

Ma qualche buon colpo, un paio almeno, nel momento giusto, Grillo, che è un ottimo comunicatore, dovrebbe piazzarli.
Potrebbe significare molto, in termini elettorali.

500


Cosa vi è venuto in mente a leggere questo titolo?

Volevo scrivere della 500 intesa come macchina. Ma poi mi sono perso e sono andato a finire sulle 500 lire d’argento.

Chi si ricorda, per averle maneggiate o viste poi, le vecchie 500 lire d’argento?

Se cerco su google trovo un sito incentrato su questa moneta. Oggi offrono 5,60€ per una moneta da 500 lire, qualsiasi conio. Il che vuol dire praticamente 0,50 € al grammo, visto che quelle monete pesavano 11 grammi.  Il che è una media dell’offerta relativa a varie leghe d’argento, che va da 0,40 a 0,60.

Il valore di 500 lire al cambio sarebbe invece di 0,968 €. Ovvero quasi 6 volte tanto (5,785).

La moneta fu prodotta dal 1957 al 1967. Poi il costo era maggiore del valore nominale e quindi smisero di batterla.

Ma quanto valeva una moneta da 500 lire in quegli anni?

C’è da distinguere in termini di valutazione e in termini di potere d’acquisto.

In queste tavole dell’Istat è possibile farsene un’idea: 1 lira del 1965 corrisponde a 0,05353 (ipotetica) lira del 2010. Ovvero 500 lire sono pari a 26,76 lire ovvero 0,0138 euro. Poco più di un centesimo quindi. 14 cent per 5000 lire; 1,38 per 50.000 e così via.

Nel 1965, tram e giornali costavano 50 lire, il pane 170, il latte 130, la carne 1900 lire al kilo.  Lo stipendio medio era di 86.000 lire (tabella)

Il prezzo di una 500 F nel 1965, appena uscita, era di 475.000 lire.

Il che vuol dire che con cinque mesi e mezzo di stipendio medio potevi comprarti la macchina. Altri tempi eh?

Eh già. Il potere d’acquisto.

Quando cantavano la canzone “se potessi avere 1000 lire al mese” sognavano una vita da ricchi…. ebbene, tradotte in termini monetari quelle 1000 lire di allora (1939) equivalgono a circa 750 euro di adesso. D’accordo che fra disoccupati e precariato stiamo messi così male che questa cifra per molti italiani rappresenta ancora una discreta sommetta cui aspirare mensilmente, ma insomma… non credo sia da definirsi propriamente un sogno

Un modesto impiego, io non ho pretese,
voglio lavorare per poter alfin trovar
tutta la tranquillità!
Una casettina in periferia, una mogliettina
giovane e carina, tale e quale come te.
Se potessi avere mille lire al mese,
farei tante spese, comprerei fra tante cose
le più belle che vuoi tu!

la vedo dura, con 750 euro!

E’  chiaro che la questione del potere d’acquisto risente dell’ aumento/abbattimento del costo di produzione e di quello dei servizi e non può essere desunto meccanicamente.

Ma insomma…

la Cinquecento.

Nel 1965 ero nato ma non portavo macchine. Una quindicina d’anni dopo si. E la mia prima macchina è stata una 500, anzi, una 595 con motore Abarth. L’esterno era del tutto normale, mica tamarrata nei vari tuning che si usavano allora… era una sobria 500 blu scura, targata roma H59039. Però pistava più delle altre. Non aveva gli sportelli che si aprivano controvento, aveva i sedili reclinabili… e lo stereo8.

Stereo8 vuole dire le cassette musicali erano grosse più o meno come un hard disk da pc. La macchina era piccola, 10 cassette, equivalenti a 10 long playing, erano un bell’ingombro. Quando in macchina salivamo in quattro uno doveva tenersele in braccio, più o meno.

Ma come ci stavamo in quattro in una cinquecento? Due davanti e due di dietro, ovvio.

Prima di passare a me era la macchina di mia madre. Una volta, non avevo ancora la patente, ma credo che ormai il reato sia prescritto e posso confessarlo pubblicamente, mi divertivo, io e altri tre, a fare una corsa a cronometro su una strada di una decina di chilometri tutta curve, nel bosco. Prendevo le curve in controsterzo e controllando le sbandate. Ogni volta il tempo si abbassava, mentre studiavo il percorso e osavo di più. La seconda sera, al terzo passaggio, la macchina si è capotata, ha fatto un bel po’ di giri su se stessa e e si è fermata a ruote all’aria.  In quattro dentro, invece di una marmellata di deficienti siamo usciti con qualche graffio e basta.

Mio padre disse che queste cose le aveva fatte anche lui, l’importante era che potessi raccontarle. Riparò la macchina in tempo per quando arrivava la patente.

Insomma, per quelle strade di allora, per la velocità che aveva, la cinquecento in fondo era anche abbastanza sicura. Era di metallo pesante, mica di plastica.  Eppure certi tempi, da casa al paese a casa a roma, che ho avuto con la 500… niente da fare… anche con macchine molto più potenti, su strade molto più agevoli… negli anni non sono mai riuscito a trovare il coraggio di abbassarli. Dovevo essere proprio matto. Ma forse allora c’era meno traffico.

Comunque questo non voleva essere un post nostalgico. E’ che riflettevo sul paradosso per cui più diventiamo (al mondo) e più tendiamo a circondarci di cose grosse.

Guardate una macchina degli anni 70. Chi era troppo giovane a quel tempo non può ricordare, ma l’850 era una macchina “grande”. Una famigliare. Ora se la vedi per strada, raramente ma capita, fa impressione per come è piccola. Più piccola di una minicar.

Eppure le città sono sempre più piene di traffico, di gente. E le città si estendono per decine di chilometri in quella che al tempo delle cinquecento o delle ottoecinquanta era campagna. Oggi però qualche minus habens gira con l’Hummer, ma non sono pochi quelli che girano con il SUV.

Probabilmente siamo anche più grossi. Più grassi sicuramente. Degli anni 70.

Basta vedere qualche spezzone TV di quegli anni 60/70.  L’impressione di un’infanzia con carenze nutrizionali per molti,  è notevole.   D’altro canto i trentenni del 65 erano i decenni del 45… avevano le macchine strutturate per i loro corpi. Le strade per le loro macchine. Le vacanze per le loro strade.

Ma non sono sicuro che sia solo questo. Anzi, direi proprio di no. Penso che più grosso è meglio sia la trasposizione sugli oggetti dell’esibizione scimmiesca della propria potenza fisica. Un atavismo dolcemente cullato dalla civiltà dei consumi in quanto del tutto funzionale ad essa.

Mi chiedo quando ci sarà, se ci sarà, l’inversione culturale per cui poco è meglio. Su tutto.

Quello che mi è piaciuto della Corsica è stato trovarne qui e là traccia. Non per intellettualismo, ma per abitudine antica.

Penso che esistano molte altre culture al mondo che resistono. Purtroppo sono minoritarie e, fino ad oggi, perdenti, rispetto al modello culturale dominante.

 

 

Come la tv danneggia le facoltà mentali


di Marco Della Luna http://marcodellaluna.info/sito/?p=506

Le funzioni psichiche superiori, cognitive e matcognitive, possono essere sviluppate, mediante l’addestramento (familaire, scolastico, professionale) e/o pratiche autonome, ma  anche impedite nel loro sviluppo, o danneggiate. Uno dei fattori più attivi in questo senso, sia per intensità che per quantità di persone colpite, è la televisione, assieme ai videogiochi.

Norman Doidge, in The Brain that Changes Itself (Penguin Books, 2007), espone allarmanti risultati di rilevamenti scientifici sugli effetti neuroplastici dell’esposizione alla televisione e ai video games. Preliminarmente, Doidge illustra come la neuroplasticità, di cui già abbiamo trattato, fa sì che, come il cervello foggia la cultura, così la cultura, le pratiche di vita (anche quelle che possono essere imposte a fini manipolatori) foggiano il cervello. Lo foggiano generando e potenziando reti neurali, collegamenti nervosi, innervazioni, che consentono di compiere prestazioni ritenute estranee alle facoltà dell’uomo, come aggiustare la vista alla visione subacquea senza l’uso di occhialini (osservato negli “zingari del mare”, una popolazione di pescatori di perle, e sperimentalmente  riprodotto in bambini svedesi – Doidge, cit., pag. 288). Anche l’attività di meditazione muta il cervello, aumentando le dimensioni dell’insula (pag. 290).  Anche la pratica della lettura produce modificazioni espansive di alcune aree corticali (pag. 293). I nostri cervelli sono diversi da quelli dei nostri antenati. Principio basilare della neuroplasticità è che quando due aree cerebrali lavorano abitualmente assieme, si influenzano reciprocamente e a sviluppare connessioni, formando un’unità funzionale. Ciò può avvenire tra aree di livello evolutivo diverso: ad esempio, nel gioco degli scacchi, dove si punta a dare la caccia al re avversario, tra aree arcaiche esprimenti e organizzanti l’istinto della predazione, e aree corticali esprimenti l’intellettualità (297): in tal modo, l’attività predatoria viene temperata e trasfigurata.  Naturalmente, il condizionamento cerebrale, l’impianto di schemi neurali (valori, codici, inibizioni, fedi) è assai più agevole e rapido nell’infanzia e nella prima adolescenza, prima che si compia il processo di sfoltimento dei neuroni e delle loro connessioni (neuroplasticità sottrattiva) (pag. 288). Per tale ragione, tutte le istituzioni totalizzanti – religiose e politiche – tendono ad impadronirsi della gestione dell’infanzia; notevole è il caso del regime nordcoreano, che gestisce i bambini dai 5 anni in poi impegnando quasi tutto il loro tempo in attività di culto delle personalità del dittatore e di suo padre. Altresì per questa ragione, l’integrazione culturale e morale degli immigrati adulti è pressoché impossibile, se richiede estesi “ricablaggi” neurali. (pag. 299). Anche la percezione e l’analisi di eventi avviene in modi diversi a seconda dell’imprinting ricevuto, e non per effetto di differenze meramente culturali, ma a causa di diversità di reti neurali, come hanno confermato esperimenti di comparazione tra occidentali e orientali (pagg. 298-304).

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Eldorado 2011


Per il quarto anno mi hanno ho l’onore e l’onere,  di organizzare la Festa della Primavera a Sperlonga, Eldorado.

Gli altri anni, svariate decine di arrampicatori si sono fatti portatori di cibarie e beveraggi, oltre che di attrezzature d’arrampicata, fino a Eldorado, l’ultimo nato dei settori della classica falesia di Sperlonga.

A Eldorado, in una grotta, risiede in pianta stabile la griglia per il barbecue.

Nel promo video della festa ci sono un po’ di immagini degli anni scorsi.

lo schiaccianoci


Ieri sera dovevo andare in palestra ad allenarmi, invece sono andato a vedere “Lo Schiaccianoci, un balletto classico.

Siccome presumo che i miei lettori siano in larga parte ignoranti, come me, sull’argomento…  vi rimando a questo riassunto , andate a leggerlo.

Fatto? Bene.

Se invece siete pigri e volete rimanere ignoranti arrampicatori peggio per voi.

Insomma, “lo schiaccianoci” è una favola di natale, da cui è tratto un balletto con musiche di Chaikovskij. Alcune di queste musiche le conoscono tutti anche magari non sapendo che sono dello schiaccianoci. Ad esempio il “valzer dei fiori” ,  “la marcia” , “la danza russa“.

Ora che per la prima volta in vita mia sono andato a vedere un balletto classico che riflessioni ne traggo?

Che nonostante mi fossi premunito di scegliere qualcosa di cui conoscessi le musiche, per avere maggiore familiarità, in realtà ne conoscevo una minima parte, quasi tutte concentrate nel secondo atto e che nonostante avessi letto la storia, solo in alcuni punti sono riuscito a trovare la correlazione con quello che vedevo messo in scena.

Il risultato è stato che quasi mai ho capito quello che avveniva sotto i miei occhi e che la maggior parte delle musiche mi erano aliene.  Se nella prima parte non mi sono addormentato lo devo a delle poltroncine scomodissime, fatte per fachiri o comunque esseri più bassi e più stretti di me, che mi hanno impedito minimamente di rilassarmi, nonostante fossi su un posto laterale che mi permetteva di allungare le gambe nel corridoio.

La seconda parte è andata meglio, perché c’erano più musiche note e poi sapendo che stava finendo ero in una disposizione d’animo più positiva.

Verso la fine mi veniva un sincero applauso. Perché si era alla fine appunto. E intelligentemente pensavo che mica si metteranno a dare i bis in un balletto classico, no? E infatti non c’è stato nemmeno qualche sconsiderato che lo ha chiesto, nonostante non la smettessero più di applaudire.

Scherzi a parte. La sala era l’Auditorium della Conciliazione, il corpo di ballo quello del Balletto di Roma, la stella Andrè de la Roche (vedi qui e qui ).

Anche io alla fine applaudivo.  Mi sembrava brutto farmi notare stando fermo con le mani e poi anche se io non sono in grado di apprezzare il balletto come arte riesco comunque a percepire la parte atletica, quella del controllo del corpo, dei movimenti duri eseguiti con leggerezza apparente. Diciamo che applaudivo gli atleti, il lavoro e il sacrificio che era dietro quei movimenti.

Però devo dire che non ci ho capito niente. Leggo su una recensione:

L’idea che guida questa edizione è quella di cancellare la patina da strenna natalizia dal balletto di Caikovskij, trasformandolo in un’incalzante narrazione dell’inconscio e degli incubi dell’infanzia, con un cambio di prospettiva insolito e affascinante.

Sarà questo il problema?

Cioè… loro danno per scontato che lo schiaccianoci tradizionale sia ormai obsoleto e quindi vada rivisitato. Questo presuppone però uno spettatore colto, che sappia cogliere l’evoluzione avendo presente la storia. Invece capita uno zotico come me e gli aleggia sulla nuca un grosso punto interrogativo per buona parte della serata.

Ma a parte anche questo… la cosa peggiore è che devo ammettere che tutti questi piripicchi saltellanti e piroettanti (senza offesa eh) che corrono di qua e di là non mi dicono proprio niente. Mi chiedo: perchè uno quando riceve una notizia (a prescindere dal fatto che io non capisca quale notizia) dovrà farsi una corsetta saltellante da una parte all’altra del palco?

Insomma: perché la gente (non tutta per carità, ma devo/dovete ammettere che da sempre, parte dell’umanità si appassiona e si diverte a veder ballare) prova piacere nell’assistere a queste rappresentazioni?

Perché io invece non mi appassiono per niente, anzi mi riesce difficile starli a guardare? La cosa mi perplime.

Francamente, apprezzando il corpo femminile, se ci fossero state più ballerine probabilmente ne avrei tratto un certo piacere estetico nel guardare i loro corpi atletici e flessuosi. Ma c’erano molti maschi, alcuni di dubbia identità sessuale direi, a giudicare dalle movenze,  e la prima ballerina era una ragazzina. Insomma nemmeno questa soddisfazione da voyeur ho avuto.

E così non mi sono allenato (e dio solo sa se ne avevo bisogno) e sono stato vittima di due dei nemici dell’arrampicata (vedi post di ieri):

– coltivare interessi esterni

– amore

Eh già. Perchè vi pare che non è per amore, che sono andato lì?

 

Hatsune Miku


In giappone ha un discreto successo una cantante del tutto virtuale.

La sua immagine è un ologramma, la sua voce è sintetizzata con uno strumento yamaha, il vocaloid.

(in questo video su repubblica l’audio è migliore, ma non posso incorporarlo).

A parte le considerazioni sulla meraviglia tecnologica… mi viene da pensare a varie applicazioni di queste immagini olografiche, fino a poco tempo fa appartenenti a scenari di fantascienza… quello che mi perplime sono i fans.

Cioè tutti quelli che pagano per vederla dal vivo, applaudono, ballano, interagiscono.

Non capisco se sia una forma di snobismo, quella di interagire con un ologramma come se fosse un essere umano. O se in fondo, Hatsune Miku, non sia meno vera di un qualunque personaggio dello spettacolo, ormai completamente virtualizzati.

Il confine fra realtà e irrealtà dove si pone?

Esiste?

buon anno


 

e un altro anno è andato, anzi un decennio.

il capodanno del 2000, che guardavo così lontano nel futuro negli anni 80 e 90, ero a Livigno. Ho un ricordo poco prima di mezzanotte, sulla neve dura sotto casa, il mio cane che alzava la gamba su un pupazzo di neve che in testa aveva una candela di cera argentata con una fiammella su ogni cifra del numero magico: 2000.

“Abbi un po’ di rispetto, Flock !” dissi. Ma lui mi ignorò e continuò ad annusare attorno.

E come quel pupazzo segnato di giallo alla base nei giorni successivi scomparve, così passò il fatidico anno 2000 e ora è già lontano dieci anni.

In dieci anni un bambino diventa grande. In dieci anni ne succedono di cose.

Sono stato a Sperlonga a scalare, questo capodanno. Sono stato bene.

Il 31 però un amico di forum se ne è andato, travolto da una valanga. E la sera non riuscivo ad essere allegro. Non ci riuscivo.

Come un ronzio di sottofondo, nelle risa e qualche voce da ubriaco, sentivo una malinconia, per lui e per tutti quelli che in questi anni se ne sono andati. Per il tempo che corre via, per tutto ciò che siamo e che ci scorre fra le dita come sabbia.

Non faccio mai buoni propositi, pensando al futuro. Così come non rimpiango il passato.

Eppure, citando qualcuno che non ricordo: “La nostra felicità non dipende soltanto dalle gioie attuali ma anche dalle nostre speranze e dai nostri ricordi. Il presente si arricchisce del passato e del futuro.”

E allora, più che di propositi, parliamo di speranze. Ecco, vorrei che il mondo, e questo paese in particolare, mi apparisse meno brutto di come lo vedo ora. Non tanto per me, ma per mia figlia. Vorrei poterle dire che studiare serve a qualcosa, che ad impegnarsi potrà costruire la sua vita, che ad essere onesti si vive meglio. Che il mondo non è dei prepotenti e dei furbi, ma che esiste una giustizia, da qualche parte, prima o poi.

Vorrei poterle dire che con poco si può avere una vita dignitosa e che la felicità non è nell’avere cose ma nel riuscire ad essere se stessi con gli altri. Che il senso della vita nessuno lo sa ma che non può essere quello di distruggere tutto ciò che abbiamo attorno, vita compresa.

Vorrei poterle dire cose diverse, da quelle che ogni giorno le arrivano dalla società in cui vive. Senza pensare che questi valori siano stati sconfitti e che viviamo in un paese razzista, egoista, gretto.

Ma va beh.

La speranza, oggi, è di non peggiorare. Ed è già molto. Staremo a vedere cosa ci porterà questo 2010. Auguri a tutti.

donne


Ho imparato da ragazzo a considerare le donne prima di tutto esseri pensanti.
Sembra poco, e scontato. Ma è dura da scartavetrare la patina culturale per cui le donne agli occhi di un maschio sono prima di tutto, altro.
Siamo diversi biologicamente e questa diversità biologica ha prodotto quella culturale.
Gli assetti economici poi cambiano e quelli culturali si adeguano, disegnandosi sulle strutture socio-economiche. Ma ci vuole tempo. E comunque resta la diversità biologica.
 
Ma questo, in fondo, basta saperlo, no?
Maschi, femmine… diversi ma necessari, reciprocamente. Un po’ consapevoli e un po’ strumenti di meccanismi biologici, ma anche cercando di essere ironici e distaccati quando vediamo come certa cultura ci condizioni.
 
Non ho mai sofferto di complessi d’inferiorità verso il femminismo. E nemmeno di aggressività.
Non devo dimostrare niente a nessuno, e nulla da una donna deve essermi dimostrato.
 
Il mio rapporto è con le persone. Con gli esseri senzienti.
 
Però devo dire che preferisco rapportarmi alle donne.
Sono più disposte a pensare. Sono più attratte, in genere, e come me, dalle riflessioni sui sentimenti. Più attente al significato delle emozioni.
 
Spesso, fra maschi, si instaura un meccanismo competitivo, consapevolmente o meno.
Con le donne c’è magari la battuta maliziosa, l’attrazione fisica anche, il gioco dei sessi è sempre presente, anche quando solo in sottofondo, una specie di trama su cui vanno a intessersi discorsi che nulla hanno di corteggiatorio, anzi.
C’è una similitudine nel ricercare dialoghi che vanno dalla politica alle emozioni passando per la tecnica ma anche per il semplice estetismo.
I maschi in genere sono più trattenuti. Quasi temessero fra loro di scoprirsi, ognuno considerando l’altro un pericolso rivale a cui confidando proprie debolezze si scopre il fianco a futuri attacchi.
 
Io non sono così.
Non sono così forte da essere indifferente alla perdita di amicizie.
Ma non mi spaventa, se questo deve essere.
Non mi tengo nulla per paura di…perderlo.  Ogni rapporto che ho ce l’ho perchè nella reciproca trasparenza ci troviamo interessanti, stimolanti, affidabili…
Ecco. Con le donne mi è più facile.
Con gli uomini molto meno.
 
Questo è vero soprattutto nel web, dove l’interazione rimane nell’ambito dello scambio virtuale. Senza commistioni di altro genere, a cui si può essere tentati, quando ci si trova interessanti, stimolanti, e, magari, anche molto attraenti.
Ma è vero anche nella vita reale. Dove ho un sacco di amiche, amiche. Veramente amiche.
 
Ecco.
Secondo me le donne sono (mediamente, è chiaro) interlocutori molto più interessanti e completi dei maschi.
A qualsiasi età.
I maschi molto, molto meno.
 
Non è che non siano intelligenti, i maschi. Ma spesso la loro intelligenza è settoriale. E’ indirizzata verso qualcosa di specifico.
Sono incapaci, quando posseggono intelligenza, di spaziare dall’ambito razionale a quello emotivo (mediamente, sempre).
 
Insomma, ripeto, perché odio le generalizzazioni… mediamente più femmine dei maschi sanno essere multiformi, ricche dal punto di vista emozionale e capaci di esternarlo in una comunicazione che non sia fra intimi.
 
E poi, come maschio, le preferisco 🙂 perché sono (per me) piacevoli da guardare. E non è poco … Animoticon

Insomma, lungi da me l’idea di essere esaustivo su questo argomento. E’ solo uno spunto di riflessione.